I modelli teorici e operativi che guidano le nostre prassi sono da collocarsi all’interno della più ampia cornice epistemologica della “Psicologia della Salute”, che si pone come finalità la promozione di processi salutogenici (Antonovsky, 1979), ossia percorsi che diano spazio alla complessità della persona come portatrice di norme, valori e risorse, per promuovere le potenzialità che possono generarsi nella relazione fra l’individuo e i suoi contesti di appartenenza, migliorando così i processi di convivenza.
Considerando la salute un processo integrativo di ben-essere e mal-essere fisico, psichico e sociale (Bertini, 2012), adottiamo un approccio biopsicosociale (Engel, 1977), considerando la persona coinvolta ad affrontare gli eventi di vita nella loro complessità, sul piano fisico, emotivo, cognitivo e sociale.
Canguilhem (1966) ci suggerisce che “ciò che caratterizza la salute è la possibilità di oltrepassare la norma che definisce il normale momentaneo, la possibilità di tollerare infrazioni alla norma abituale per istituire nuove norme in situazioni nuove”, rafforzando così la necessità di adottare una prospettiva dinamico-evolutiva della salute, soffermando l’attenzione sulle potenzialità trasformative delle esperienze, sempre inscritte in una specifica cornice storico-biografica, ma anche politica e sociale.
Diventa utile, quindi, dare ascolto e voce a quei processi di soggettivazione che permettono di potenziare le competenze della persona a instaurare nuove norme nel complesso rapporto dialettico e dialogico fra ben-essere e mal-essere, costruendo rinnovati percorsi per riscoprire benefici che possono generarsi dall’incontro con eventi critici. Questo è possibile adottando una visione sistemica e co-costruttiva dell’esperienza, che vede nella ricchezza dell’essere in relazione, un’opportunità per sviluppare reciproche potenzialità, che trovano senso nella trama delle trans-azioni fra persone e ambienti, che producono significati condivisi sulle esperienze. I contesti di intervento si configurano, in quest’ottica, come “matrice di significati” (Bateson, 1972), nel senso di sistemi di rappresentazioni più o meno condivisi in base ai quali gli attori sociali costruiscono il mondo circostante.
Le rappresentazioni sociali, così come definite da Moscovici (1961, 1973), nella loro duplice funzione, cognitiva e sociale, si configurano come quei sistemi di valori, idee e pratiche che permettono in primo luogo di definire un ordine che consenta alle persone di orientarsi nel loro mondo naturale e sociale e controllarlo e in secondo luogo, permettere che ci sia comunicazione tra i membri di una comunità fornendo loro un codice per gli scambi sociali e un codice per nominare e classificare senza ambiguità i vari aspetti del loro mondo e la loro storia individuale e di gruppo. Le rappresentazioni sociali costituiscono, dunque, un costrutto utile ad analizzare i modelli di conoscenza condivisi, che orientano le azioni e le produzioni verbali degli attori sociali.
Abbracciando una prospettiva socio-costruzionista, possiamo considerare il processo di ricerca psicologica come un percorso di costruzione della conoscenza, o più specificatamente, come afferma Willig (2013) delle “conoscenze”. “La ricerca da una prospettiva socio-costruzionista è concentrata sull’identificazione dei vari modi di costruzione sociale della realtà che sono disponibili in una cultura, per esplorare le condizioni del loro uso e tracciare le loro implicazioni per l’esperienza umana e le pratiche sociali” (Willig, 2013).
L’azione narrativa e discorsiva, si configura come processo interattivo e culturale, come azione sociale, ritrovando nella sua valenza pragmatica e performativa, quel veicolo privilegiato per lo scambio e la negoziazione di rappresentazioni condivise, che permettono la formazione dei processi identitari, personali e sociali e l’esplorazione delle culture locali.
La narrazione diviene, così, contemporaneamente fenomeno e metodo, oggetto e strumento di ricerca. In questa prospettiva, diventa centrale la funzione del soggetto che produce la narrazione, in termini di agentività, intesa come capacità di agire, di produrre azioni e di posizionarsi all’interno delle pratiche discorsive, intese come sequenze strutturate di atti intenzionali che utilizzano sistemi di segni o simboli negoziati e veicolati attraverso l’interazione sociale e che al contempo contengono la soggettività. In questa prospettiva la mente è considerata come “dinamicamente ed essenzialmente radicata nel contesto storico, politico, culturale, sociale e interpersonale.” (Harré, Gillet, 1994). L’esperienza di sé si fonda su una quadruplice locazione (morale, sociale, spaziale e temporale) che si realizza e si percepisce attraverso il sistema linguistico. Ogni volta che un individuo emette un atto linguistico, si posiziona contemporaneamente spazialmente, temporalmente, moralmente e socialmente. La Positioning Theory (Harré, van Langenhove, 1999) rappresenta, dunque, una interessante cornice euristica ed interpretativa.
Il positioning è inteso come quel processo mediante il quale la persona si colloca ed è collocata, per mezzo di pratiche discorsive, in un sistema di coordinate che ne identificano e limitano le possibilità d’azione. Il posizionamento è un processo dinamico, una costruzione discorsiva di narrazioni personali, con valenza interazionale e intraindividuale, un prodotto continuamente rinegoziato e culturalmente condizionato dalle prassi narrative consolidate. La teoria del posizionamento focalizza l’attenzione sui processi e sull’evoluzione, sulle potenzialità trasformative che possono generarsi nell’interazione sociale.
…alcuni riferimenti bibliografici
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