Che cos’è la dignità di un essere umano? Attraverso l’ultimo film di Ken Loach proviamo a rispondere.
Daniel è un uomo sulla soglia dei 60 anni, vedovo, ha sempre fatto il carpentiere, ma in seguito ad una crisi cardiaca si ritrova a non poter più lavorare. Fin qui la storia sembrerebbe lineare, ma Daniel finisce intrappolato in una morsa burocratica impietosa e asettica. I medici lo considerano inabile al lavoro e per questo gli spetterebbe l’indennità di malattia, ma dal punteggio di un questionario standard che gli viene somministrato risulta che invece non ne ha diritto. A questo punto non gli resta che richiedere il sussidio di disoccupazione, ma per farlo deve dimostrare di impegnarsi a cercare lavoro per diverse ore alla settimana, utilizzando soprattutto metodi a lui estranei come computer e internet. La storia si fa paradossale e in tutta questa assurda e drammatica vicenda conosciamo la vita di Daniel, così come quella di Katie, una ragazza madre di due bambini con cui Daniel stringe un’amicizia alimentata da un’alleanza energica e sincera.
Il film racconta le loro vite attraverso le difficoltà quotidiane di una povertà che non sembra lasciare vie di fuga. Le contraddizioni della burocrazia si allungano e le possibilità di tirare avanti diventano sempre più magre, le privazioni sempre più dure, fino alla più crudele e dolorosa di tutte, la propria dignità di cittadino e di persona.
Lo sfondo è un paesino dell’Inghilterra, ma questa distanza geografica non impedisce di evocare risonanza nella resistenza dei protagonisti contro un sistema spersonalizzante, che fra moduli, procedure e rigide regole si mostra incapace ad ascoltare i veri bisogni di chi si ritrova in una condizione di indigenza.
Al di là della valenza politica e sociale del film, quello che ci colpisce particolarmente è la capacità di far emergere la soggettività dei personaggi, in quanto esseri umani con una propria storia, non assoggettabile ad una limitante macchina burocratica, che non tiene conto di sfumature fondamentali per riscattare la vita di una persona, e per restituire quella dignità di cittadino, schiacciato dallo stesso welfare che si propone di prendersene cura.
Noi, da psicologi, guardiamo attraverso questa lente, e possiamo in questo modo provare a dare una risposta alla nostra domanda iniziale. Forse la dignità di un essere umano è proprio nella possibilità che si da a se stessi e agli altri di sentirsi UMANI, di dar voce a quell’io, uno fra tanti, che, nonostante tutto, attraverso un nome e un cognome, tenta di difendere con tenacia e umiltà i propri diritti, i propri valori, i propri ricordi, i propri sogni, la propria identità e libertà di scegliere.
“Il mio nome è Daniel Blake, sono un uomo, non un cane. E in quanto tale esigo i miei diritti. Esigo che mi trattiate con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino, niente di più e niente di meno.”
C’è un altro aspetto, forse più sottile, che intravediamo in questo film, ed è la possibilità di riconsiderare il concetto di “produttività” di una persona. Daniel, alle soglie della terza età e con un infarto alle spalle, per lo Stato è un costo, una spesa passiva, ma per la società e in particolare per le persone che lo conoscono e che lui stesso si impegna ad aiutare, egli rappresenta una preziosa risorsa, per le sue qualità umane, ma anche per le competenze accumulate con passione in quarant’anni di lavoro e che potrebbe trasmettere alle nuove generazioni.
Forse ripensare e ridisegnare i confini di quello che può essere utile per il nostro benessere quotidiano, può anche aprire una strada per riscrivere alcune politiche sociali e del lavoro, spesso ancora distanti da un’idea “evolutiva” dell’essere umano.
Marzia Roberto
Psicologa – Psicoterapeuta