Su Gianni Berengo Gardin si è detto e scritto a volontà, e lui stesso si è raccontato molto nelle numerose interviste rilasciate. La sua bravura è nota a tutti e la bellezza delle sue fotografie innegabile… ma bravura e bellezza sono due categorie che non ci dicono molto, se non per esprimere una sintesi di gradimento.
I suoi scatti vanno assaporati e rivissuti, perché sono narrazioni di vita, del nostro paese, testimonianze che raccontano le persone e l’Italia, dagli anni 50 ai nostri giorni.
Fino al 28 agosto, a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, la mostra: Gianni Berengo Gardin. “Vera fotografia”. Reportage, immagini, incontri.
Una selezione di circa 250 scatti, raggruppati in sei sezioni: Venezia; Milano e il lavoro; Manicomi, zingari e foto di protesta; Italia e ritratti; Le donne; Visioni del mondo: paesaggi e Grandi Navi. Degni di attenzione anche i commenti di amici, colleghi, architetti, intellettuali, che accompagnano alcune sue foto.
Sono due le ragioni che dal nostro punto di vista ci interessano particolarmente della fotografia di Berengo Gardin. Il primo è l’attenzione che egli ha dedicato e dedica alla fotografia nella sua funzione di indagine sociale, il secondo ha a che fare con la modalità utilizzata, mai invasiva, mai così esplicita da saturare la nostra capacità di immaginare, riflettere e guardare oltre.
In un’epoca storica di indigestione dall’immagine, che porta l’attenzione in maniera invasiva e spasmodica sul singolo dettaglio, trascurando spesso il contesto, ecco che Berengo, attraverso la sua Leica con grandangolo, allarga il campo.
“Quando fotografo un paese, cerco sempre di partire dall’esterno: mostrare dove si trova, come è costruito, entrare nelle strade, poi nei negozi, nelle case e poi fotografare gli oggetti. Il filo è questo; si tratta di seguire un percorso logico, semplice, capace di rivelare un paese, una città, una nazione. E così conoscere l’uomo.” (GBG)
Delicati bianco e nero che si propongono con uno sguardo attento, rispettoso e in ascolto ai suoi soggetti fotografici e all’ambiente che li circonda. Spesso nelle sue foto ritroviamo più indizi a raccontare la medesima storia, il tutto in un’unica scena, creata senza artifizi, contraffazioni, manipolazioni e rigorosamente in analogico.
Berengo ha realizzato numerosi reportage e oltre 250 libri fotografici. Ricordiamo, in particolare, il suo prezioso lavoro di documentazione della realtà manicomiale italiana, condotto nel 1968 assieme a Carla Cerati, poi confluito nel libro-documento “Morire di Classe”, curato dallo psichiatra Franco Basaglia e da sua moglie Franca Ongaro.
Basaglia all’epoca si stava battendo per una riforma del sistema psichiatrico italiano e questo lavoro contribuì notevolmente alla costruzione del movimento d’opinione che ha portato, nel 1978, all’approvazione della legge 180, che istituì la chiusura dei manicomi in Italia.
Un reportage di denuncia che all’epoca risultò perturbante, nel suo potere di scandagliare un “sistema chiuso”, quasi insondato. Un lavoro che non voleva fotografare la malattia mentale in sé, ma come lo stesso Berengo ha detto “…la condizione alla quale era costretto il malato.”
Così il regista Marco Bellocchio commenta alcune fotografie della sezione “Manicomi”: “…ma questi ergastolani manicomiali non hanno salvato niente, neanche quel briciolo di rabbia, di odio che in condizioni disperate può salvarci dal nulla.”
In questa mostra ritroviamo anche le foto che documentano il passaggio delle grandi navi da crociera nella laguna di Venezia. Una minaccia per la città dal punto di vista strutturale, ambientale e paesaggistico. Berengo si fa portavoce di una questione dibattuta e nel momento in cui vuole esporre questi scatti proprio nella città di Venezia, incontra l’ostilità dello stesso sindaco preoccupato per le ripercussioni sull’immagine della città, a difesa dei vantaggi economici che il passaggio di queste navi comporta. Fortunatamente, dopo numerose polemiche e un cambio di location, le foto sono state esposte a Venezia alla fine del 2015.
Un altro sguardo interessante è quello che Berengo dedica alle trasformazioni del mondo del lavoro… l’abilità di raccontare i mestieri, oggi scomparsi e quasi dimenticati, la dignità del quotidiano lavoro della classe operaia, le fabbriche, il processo di industrializzazione. Passato e presente che testimoniano cambiamenti nella vita culturale, sociale e politica del paese.
E poi c’è il progetto sugli zingari, che Berengo ha avuto modo di conoscere frequentando tre campi nomadi a Trento, Firenze e Palermo, interessato a comprendere la cultura rom e il modo in cui queste persone vivono nel nostro paese. Un lavoro che nessuno voleva pubblicargli, forse proprio perché non ricalcava cliché e pregiudizi con cui siamo abituati a guardare la cultura rom. Berengo infatti propone un interessante cambio di prospettiva, entra nei campi nomadi inizialmente senza macchina fotografica, interagisce, conosce, si fa conoscere, e dopo aver costruito un rapporto di fiducia, attraverso quella che possiamo definire un’osservazione partecipante, inizia a documentare la loro quotidianità.
Oltre quanto già citato, ci sono scatti sulla cultura contadina, la condizione delle donne da nord a sud, i ritratti, i paesaggi, l’architettura.
In conclusione, in questa mostra c’è tanto da apprezzare, tanta storia e molti spunti per ri-pensarla, c’è nostalgia, ma anche tanta grinta per non restare solo a guardare.
Una fotografia sociale dunque. Sociale proprio perché intessuta nelle trame della vita pubblica e privata delle persone. Sociale perché chiama in causa i processi di convivenza tra singoli cittadini, gruppi, comunità, istituzioni. Ma sociale soprattutto per il coinvolgimento e le reazioni che provoca, sia di opposizione, sia di approvazione.
In questa prospettiva si può comprendere perché Berengo (un uomo che a 86 anni continua a sorprenderci) non voglia essere definito artista, ma un “testimone del proprio tempo”. Soffermarsi semplicemente alla contemplazione delle sue fotografie risulta riduttivo, ma quasi impossibile. Queste foto smuovono conoscenza e coscienza, non suggeriscono soluzioni, ma tendono a sollevare interrogativi su possibili alternative di integrazione fra miti e simbologie del nostro tempo.
Proprio per questo motivo bravura e bellezza non bastano per parlare della fotografia di Berengo, perché prima di tutto, i suoi scatti, rappresentano una testimonianza della nostra storia.
“Volevo essere artista. Le belle fotografie. Ma ho capito che esisteva un altro modo di fotografare e che in fondo non mi interessava più diventare artista ma giornalista. Se prima per me la macchina era come il pennello per il pittore, poi diventò come la penna per lo scrittore: uno strumento per raccontare cose.” (GBG)
Marzia Roberto
Psicologa – Psicoterapeuta