Capita, a volte, passeggiando fra i vicoli del centro storico di Roma, di imbattersi, in piccole gallerie d’arte che ti risucchiano all’interno. A catturarti, oltre alle suggestive e calde atmosfere degli ambienti e degli spazi espositivi, si resta affascinati da un’opera o da un quadro che si intravede dall’ingresso…impossibile non varcare la soglia per guardare più da vicino…in questo modo è avvenuto l’incontro con alcune opere di Afarin Sajedi, esposte alla Dorothy Circus Gallery di via dei Pettinari.
L’artista iraniana, offre ai nostri sguardi alcune chine su carta e alcuni acrilici su tela…grande protagonista è la figura femminile, che si offre in pasto disincantata e orgogliosa nella sua fulgida essenza. Le sue tele in particolare, levano il respiro, sembra di nuotare in apnea, per poi riemergere in superficie con gli occhi arrossati e le labbra livide di chi ha trattenuto per lungo tempo l’aria dentro di sé; ci si accorge, poco dopo, che quell’aria trasuda intorno e che come in un processo di osmosi inversa quelle donne sembrano somigliarci…fino quasi a sentire le loro ferite nella nostra stessa carne.
Le donne di Afarin Sajedi sono quasi immobili, ma esprimono umori attraverso sangue e liquidi che fluiscono da occhi, bocca, naso, mentre tutto scorre intorno e anche dal loro corpo. Donne pur vive, che ci raccontano solenni il proprio desiderio di libertà e la libertà di desiderare…un desiderio espresso senza parole, attraverso labbra chiuse che non lasciano trapelare alcun accenno di sorriso e occhi a volte bui, celati, a volte penetranti e fissi di fronte a sé, spesso gonfi, arrossati e lacrimosi, che rivendicano sempre una non indifferenza.
Donne accompagnate e attraversate da pesci che nuotano tutt’intorno o infilati nelle trame di un copricapo. Il pesce, simbolo del libero fluire, sembra quasi suggerirci l’inarrestabile forza della resistenza. Una resistenza che attraverso i ferri di un mestiere, che culturalmente e storicamente ha visto la donna stretta nei margini di una vita domestica dedita alla sola cura dell’altro, ora si offrono allo stesso tempo come giochi di potere e mezzi di liberazione…così le posate diventano corone, occhiali, lame affilate che trafiggono….ed è proprio in questo delicato passaggio, solo dopo aver ammirato le tele dunque, che il nostro sguardo può posarsi quasi divertito sui disegni a china, che ritraggono figure surreali, burlesche e quasi clownesche, impegnate in gesti di vita quotidiana illuminati di una ironica espressività; gesti liberati da quell’immobilismo che in molte culture non permette di partecipare, e a mala pena di stare a guardare, negando in questo modo la libertà della persona di costruire se stessa. In questo passaggio quindi, c’è forse la volontà dell’artista di conservare uno sguardo al passato, volgendo allo stesso tempo attenzione ad un futuro da intravedersi fra la memoria della propria storia e la possibilità di riscoprirsi e reinventarsi sempre. Una resistenza, quindi, che diventa poi motore per smuovere una partecipazione alla vita, che permetta anche di riprendersi degli spazi di gioco e ironia su di sé e sulle strettoie delle convenzioni.
Ancora pochi giorni per decantare queste opere di Afarin Sajedi…esposte fino all’8 giugno 2015 presso la Dorothy Circus Gallery di Roma. Decantare appunto…perché sarà inevitabile riappoggiare lo sguardo su ognuna di esse ancora una volta…e una volta ancora!
Marzia Roberto
Psicologa – Psicoterapeuta